venerdì, 18 Luglio 2025

“Vedersi impazzire è sentirsi tremare le gambe a furia di rimuginarci sopra, e io le ho sentite.

Vedersi impazzire è sovrapporsi ad altri corpi, ad altre personalità, è cercare di ingannarsi da soli sulla consistenza di una paranoia.

Vedersi impazzire è fare buon viso ai pensieri peggiori prima di crollare del tutto, è inventarsi sentieri sempre diversi per dare un giro di volta alle cose, è ripercorrere costantemente lo scritto e il cancellato della memoria.

Vedersi impazzire è fare a botte con la luce, orientarla nei punti giusti del corpo, evitare che si sbrindelli tra le ombre.”

“Disturbo bipolare”, “spettro dell’autismo”, “dissociazione dell’io”, “antipsicotici”, “pensieri di mancata autoconservazione”… Per il quarantenne Alcide, quattro pagine di diagnosi controfirmate da uno dei piú famosi psichiatri italiani. A volte dorme ancora con sua madre, prende sette pasticche al giorno (cinque la mattina e due dopo cena), ed è considerato “un paziente lucido, vigile, collaborativo, dall’eloquio fluido”. È un essere umano “difettoso”, trascorre ore in spiaggia, o a sfinirsi in palestra, dove va per riguadagnare in muscoli quello che ha perso in lucidità mentale.

È un pugno allo stomaco leggere Lo sbilico (Einaudi) di Alcide Pierantozzi: vuol dire assistere in presa diretta a ciò che prova, sente, avverte  ̶  a prescindere da quella che effettivamente è la realtà  ̶  una persona affetta da malattia mentale.

Lo sbilico “non è un libro di autofiction, anche se ogni tanto qualche invenzione è stata necessaria per esigenze drammaturgiche”. Allucinazioni, ruminazioni, terapie ed effetti delle stesse sono racchiuse in un volume che, sottolinea l’Autore, è scritto “quasi come un diario di bordo della malattia, e racconta una verità molto spesso alterata dai farmaci e dai miei scompensi emotivi. La descrizione di alcune persone e delle loro condotte, degli ambienti che frequento o dei miei comportamenti in rapporto ai medici, è la conseguenza di giudizi momentanei causati dalle crisi, e che in fase di rilettura ho preferito mantenere. Sarebbe stato impossibile far capire al lettore cos’è lo sbilico – e come funzionano da dentro gli sbalzi d’umore e le dispercezioni sensoriali – se avessi omesso le mie opinioni più drastiche sulle cose che mi circondano nella quotidianità. Le stesse considerazioni sugli effetti dei farmaci vanno lette in un’ottica personale e non hanno alcuna pretesa di veridicità scientifica: da paziente resto convinto di quello che scrivo, e spero di poter essere d’aiuto a qualcuno, ma sfortunatamente non sono un medico”.

Mentre vive su un precipizio, nello “sbilico” delle cose – l’unico modo in cui riesce a vivere –, Pierantozzi narra una storia di una potenza disarmante: “Ormai da cinque anni la mia malattia mentale ha raggiunto la sua acme: adesso ad esempio me ne sto qui, immobile davanti al foglio, e mi tocco il palato a mani nude perché sono convinto che l’ugola stia sparendo. È un’operazione che richiede ore, a volte giorni, un’arte carabiniera dell’impercettibile. È come se mi mancasse quell’intelligenza di fondo che induce ogni persona sana non tanto a scacciare un brutto pensiero, o ad andare dal dottore, ma a comprenderne l’infondatezza, la portata fantastica”.

L’innesco della paranoia, la percezione che si sdoppia, il modo in cui il tempo fermo di un’attesa non è mai davvero fermo, perché è lí che arrivano i pensieri. È ossessionato dalle parole, Alcide: cerca quotidianamente in biblioteca, nei dizionari, nei libri, i termini esatti, che sappiano ridurre l’irriducibile, nominare l’innominabile. Colpisce, leggendo Lo sbilico, anche l’estrema ricercatezza lessicale, termini aulici o desueti che rendono ancora più forte la trama. Una storia che spaventa e nello stesso tempo attrae: il confine con la malattia mentale è infatti molto sottile.

Rossella Montemurro

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