Fotografo, ingegnere, chirurgo, medico umanitario, poliziotto: Ricardo (o Alexandre, Daniel o Richard) è tutte queste cose. Ed è, soprattutto, abilissimo "a cambiare maschera, a contraffare i sentimenti più vari, a tramare inganni più astuti di Ulisse, a piangere,...
“La fede non è creta da modellare che può essere plasmata in un modo o in un altro, a seconda dello spirito dei tempi e delle circostanze del momento” ha affermato Mons. Gänswein.
In un contesto culturale segnato da trasformazioni rapidissime, dove i valori mutano con la stessa velocità dei linguaggi e delle tecnologie, la questione dell’identità della fede torna prepotentemente al centro della discussione ecclesiale. Le parole: «La fede non è creta da modellare che può essere plasmata in un modo o in un altro, a seconda dello spirito dei tempi e delle circostanze del momento» non rappresentano solo un ammonimento, ma un vero e proprio manifesto teologico e pastorale.
Esse contengono infatti una domanda fondamentale: fino a che punto è possibile — o opportuno — adattare la fede ai cambiamenti culturali?
E soprattutto: che cosa rimane della fede quando essa viene modellata per risultare più gradevole, più semplice, più al passo con i tempi?
La metafora della creta è potente. In un’epoca in cui identità, relazioni e persino valori sembrano spesso soggetti a modifiche continue, la fede cristiana viene riproposta come realtà non plasmabile a piacimento. Non perché rigida o insensibile alla storia, bensì perché radicata in un fondamento che non muta: il Vangelo. L’idea che la fede debba rispondere alle esigenze dell’epoca non è nuova, ma negli ultimi decenni ha assunto un’intensità particolare. Le pressioni culturali — dall’individualismo ai nuovi modelli etici, dalla comunicazione digitale alla globalizzazione — spingono le comunità credenti a interrogarsi sulla propria capacità di restare comprensibili e rilevanti. Tuttavia, il rischio segnalato da molti pastori e teologi è che questa tensione degeneri in una sorta di “flessibilità identitaria” che finisce per snaturare il messaggio evangelico.
La seconda citazione rafforza questo allarme: «Una fede ridotta, annacquata non ha efficacia. La misura della predicazione è il Vangelo, è Gesù Cristo stesso».
Il richiamo è diretto: una fede diluita non convince, non sostiene e non trasforma.
In un mondo spesso saturo di slogan motivazionali, di spiritualità fai-da-te e di narrazioni psicologiche semplificate, il cristianesimo rischia di essere percepito — o presentato — come uno tra i tanti discorsi di conforto, perdendo così la forza rivoluzionaria che gli è propria.
La storia del cristianesimo mostra invece che il Vangelo ha trovato la sua maggiore efficacia non quando è stato addolcito, ma quando è stato annunciato nella sua radicalità: un messaggio che esige, interpella, cambia, orienta. Molti osservatori sottolineano come, paradossalmente, siano proprio i giovani a essere più attratti da esperienze di autenticità radicale e meno da proposte annacquate. Ciò suggerisce che la coerenza, più che l’adattamento, potrebbe essere la chiave per parlare alle nuove generazioni.
Questo non implica chiusura, immobilismo o nostalgia. Nella storia della Chiesa la capacità di tradurre il Vangelo nei linguaggi del proprio tempo è stata essenziale. Ma tradurre non è sinonimo di trasformare. La questione di fondo non è se la Chiesa debba rinnovare i propri modi di comunicare — cosa non solo necessaria ma inevitabile — bensì se debba cambiare il contenuto del suo annuncio. Ed è proprio su questo crinale che si colloca il dibattito contemporaneo. Da una parte vi è chi ritiene che un’eccessiva rigidità rischi di rendere la fede incomprensibile a una società pluralista. Dall’altra, chi teme che, inseguendo la desiderabilità sociale, si perda di vista ciò che rende il cristianesimo unico: la figura di Gesù Cristo, il suo insegnamento, la sua promessa.
Le due citazioni costituiscono dunque un invito a riscoprire l’essenziale. In un tempo di incertezza diffusa — sociale, economica, culturale — la fede può svolgere un ruolo significativo solo se rimane punto fermo. Una fede solida non per chiusura, ma per fedeltà. Non inflessibile, ma integra. Il messaggio è rivolto alla predicazione, alla catechesi, alle comunità, ma anche ai singoli credenti: ritornare al centro, che non è un’idea, ma una persona — Gesù Cristo. Ed è proprio questa centralità a rappresentare la “misura” con cui valutare ogni scelta pastorale, ogni innovazione comunicativa, ogni tentativo di dialogo con la cultura. La tensione tra identità e dialogo, tradizione e innovazione, radicalità e accoglienza continuerà a segnare il cammino delle Chiese. Tuttavia, l’appello alla coerenza del Vangelo potrebbe diventare una bussola preziosa.
In un mondo che cambia, ciò che resta autentico acquista valore. E forse, proprio in questa autenticità non negoziabile, si nasconde la chiave per rendere la fede nuovamente credibile, incisiva e capace di parlare al cuore dell’uomo contemporaneo.
Nicola Incampo

