sabato, 13 Dicembre 2025

In un’Italia che cambia, dove le aule scolastiche ospitano alunni provenienti da decine di Paesi e culture diverse, il tema dell’integrazione torna ciclicamente al centro del dibattito pubblico. La domanda è tanto semplice quanto divisiva: possiamo davvero favorire l’integrazione togliendo i Crocifissi dalle scuole e festeggiando il Ramadan?

La questione, che affiora periodicamente nei consigli d’istituto e nelle discussioni parlamentari, tocca corde profonde: il rapporto tra religione e Stato, l’identità culturale italiana, la libertà di espressione e il diritto alla diversità.

Il Crocifisso è da secoli un elemento familiare nelle scuole italiane. Ma la sua presenza non è solo una questione religiosa: rappresenta un’eredità storica che intreccia fede, arte, diritto e cultura.

Nel corso dei secoli, il Crocifisso ha incarnato valori universali come il sacrificio, la dignità della persona, la compassione e il perdono. Anche per chi non si riconosce nella fede cristiana, è difficile negare che questo simbolo abbia segnato in modo profondo la civiltà europea: dai codici morali alle leggi, dalla letteratura alla pittura, fino alla nascita delle istituzioni di solidarietà.

Per molti, quindi, togliere il Crocifisso dalle aule significherebbe rimuovere un pezzo della memoria collettiva italiana. “Non è solo un simbolo religioso, ma un frammento della nostra storia – spiega lo storico Franco Cardini –. È come se togliessimo il Colosseo perché rappresenta un’altra epoca. Non serve eliminare per includere: serve comprendere”.

Dall’altra parte, chi sostiene la rimozione del Crocifisso non lo fa necessariamente per disprezzo o ostilità verso la tradizione cristiana. L’argomento è di tipo civico: in una scuola pubblica, dove convivono bambini di molte religioni o di nessuna, lo Stato dovrebbe garantire neutralità.

Per questi gruppi, la presenza di un simbolo religioso fisso, in un luogo che appartiene a tutti, può essere percepita come una forma di asimmetria culturale. “Il Crocifisso può essere rispettato come simbolo storico, ma lo spazio pubblico non deve rappresentare una sola fede”, sostengono le associazioni laiciste.

Alcune scuole hanno così scelto di proporre soluzioni inclusive, ad esempio appendendo accanto al Crocifisso altri simboli religiosi o culturali, oppure organizzando momenti di conoscenza delle diverse tradizioni spirituali.

Parallelamente, negli ultimi anni, diverse scuole italiane hanno iniziato a riconoscere e celebrare momenti legati al Ramadan, la festa islamica del digiuno. L’intento dichiarato è pedagogico: far conoscere ai bambini la cultura dei compagni musulmani, promuovendo il rispetto reciproco.

Tuttavia, anche questa apertura non è esente da critiche. Alcuni genitori e insegnanti temono che, nel tentativo di non “offendere” nessuno, si finisca per privilegiare simboli o riti non propri della tradizione italiana, generando confusione tra educazione interculturale e sostituzione culturale.

“Non dobbiamo trasformare le scuole in un terreno di confronto tra religioni”, osserva un preside romano. “Piuttosto, dovremmo insegnare ai ragazzi il valore del pluralismo, partendo dalla consapevolezza della nostra storia. Non si costruisce il dialogo dimenticando chi siamo”

Il vero problema, forse, non è il Crocifisso in sé, ma il modo in cui lo interpretiamo.

Per molti credenti e non credenti, quel simbolo non rappresenta una divisione, ma un invito all’incontro. Il Cristo in croce, spogliato dei suoi significati strettamente religiosi, è anche un’immagine universale di sofferenza, empatia e speranza, valori che parlano a ogni uomo e donna, al di là delle appartenenze.

Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel 2011, riconobbe che il Crocifisso nelle scuole italiane non viola la libertà religiosa, in quanto può essere considerato un simbolo “passivo”, espressione dell’identità e della tradizione culturale del Paese, non un atto di imposizione di fede.

In questo senso, mantenere il Crocifisso nelle aule non significa negare l’inclusione, ma dichiarare la propria storia come punto di partenza per il dialogo. Solo chi conosce e rispetta la propria identità è davvero in grado di aprirsi a quella degli altri.

L’integrazione non si costruisce togliendo o aggiungendo simboli, ma educando alla comprensione reciproca.

Una scuola che spiega il significato del Crocifisso e del Ramadan, del Natale e del Capodanno cinese, del Diwali e della Pasqua, non rinuncia alla propria identità: la arricchisce.

Il rischio, altrimenti, è quello di ridurre l’inclusione a una forma di neutralità vuota, dove per non “offendere” nessuno finiamo per non trasmettere più nulla. La convivenza, invece, nasce dal riconoscimento e dal rispetto delle differenze, non dalla loro cancellazione.

In fondo, la scuola è il primo luogo dove i cittadini del futuro imparano a convivere. E forse il Crocifisso, quel piccolo oggetto di legno o metallo appeso sopra la lavagna, non è un ostacolo all’integrazione, ma un promemoria silenzioso di ciò che ci unisce: il rispetto, la compassione, la dignità della persona.

Se davvero vogliamo costruire un Paese capace di accogliere senza dimenticare, di dialogare senza rinunciare a sé stesso, allora non dobbiamo chiederci se togliere il Crocifisso o festeggiare il Ramadan.

La domanda più urgente è un’altra: sappiamo ancora spiegare ai nostri figli il valore di entrambi?

Nicola Incampo

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