"(…) a un certo punto, quando pensavo di aver trovato quello che di solito chiamiamo equilibrio e che io preferisco definire un accettabile compromesso, sei apparsa e mi hai comunicato che stavo sbagliando tutto, cioè, che esisteva una parte di me ancora desiderosa di...
Avete mai riflettuto sulla solitudine.
La solitudine può avere tre voragini diverse:
- L’isolamento da Dio
- L’isolamento dagli altri
- L’isolamento da se stessi.
Purtroppo chi piomba in questi tre abissi è un essere morto.
Vorrei proporvi uno scritto di Cesare Pavese.
Pavese nacque il 9 settembre del 1908 a Santo Stefano Belbo un paesino nella provincia di Cuneo.
Malgrado l’agiatezza economica, l’infanzia di Pavese non fu felice: una sorella e due fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. La madre, di salute cagionevole, dovette affidarlo, appena nato, a una balia e poi, quando lo riprese con sé a Torino, a un’altra balia.
Il padre morì di cancro al cervello il 2 gennaio del 1914; Cesare aveva cinque anni. Come è stato scritto, “c’erano già tutti i motivi – familiari e affettivi – per far crescere precocemente il piccolo Cesare”.
Rimasto dunque solo con la madre, anche quest’ultima aveva subìto un duro contraccolpo alla perdita del marito. Rifugiatasi nel suo dolore e irrigiditasi nei confronti del figlio, questa comincia a manifestare freddezza e riserbo, attuando un sistema educativo più consono ad un padre “vecchio stampo” che a una madre prodiga di affetto.
Nel 1931 Pavese perde la madre, in un periodo già pieno di difficoltà.
Il 27 agosto 1950, in una camera d’albergo a Torino, Cesare Pavese, a soli 42 anni, si toglie la vita.
“La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto, la religione, consiste nel trovare una compagnia che non inganna, Dio.
La preghiera è uno sfogo come con un amico.
Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri.”
Io vi inviterei a fermavi sull’orlo del primo abisso: il silenzio misterioso di Dio e del nostro silenzio da Dio attraverso il peccato.
Un mistico islamico del IX secolo affermava: “Andai alla ricerca di Dio per trent’anni e quando, alla fine di questo periodo, ebbi aperto gli occhi, scoprii che era Lui che cercava me”.
E’ importante avere questa consapevolezza anche quando il cancro della solitudine ci attanaglia, anche quando il rimorso ci fa disperare.
Vorrei concludere questa riflessione con un detto folgorante del Corano che dice: “Da Dio non v’è rifugio se non in Dio”.
Una cosa è certa: Dio ci aspetta sempre come ci dice Gesù in quella stupenda parabola del figliol prodigo di peccato e del Padre prodigo d’amore.
Nicola Incampo
Responsabile della CEB per l’IRC e per la pastorale scolastica