venerdì, 5 Dicembre 2025

In Italia, ogni femminicidio è una tragedia che scuote l’opinione pubblica, riempie le pagine dei giornali e riapre il dibattito su come prevenire la violenza sulle donne. Ma accanto a quella storia, dietro le statistiche e i titoli di cronaca, c’è una seconda tragedia spesso ignorata: quella degli orfani di femminicidio, bambini e ragazzi che in pochi attimi perdono tutto ciò che avevano. La madre uccisa, il padre arrestato o morto, la casa svuotata di ogni sicurezza. E un trauma che rischia di segnare per sempre il loro percorso di vita.

Gli esperti li definiscono “orfani speciali”, una definizione che racchiude la complessità di un destino che raramente trova spazio nel discorso pubblico. Per molti di questi minori, la violenza non è iniziata il giorno dell’omicidio: è spesso il punto d’arrivo di mesi o anni di liti, minacce, soprusi assistiti quotidianamente.

“Assistono a scene che non dovrebbero nemmeno immaginare,” raccontano gli psicologi delle strutture di accoglienza.

“Quando avviene il femminicidio, vivono un trauma multiplo: perdono la madre, perdono la figura paterna, perdono la casa, la scuola, gli amici. Tutto cambia nell’arco di poche ore.”

A volte l’omicidio avviene in loro presenza. In altri casi, il bambino rimane nella stanza accanto, ascoltando urla che non dimenticherà mai più. Ed è proprio questo tipo di trauma – l’aver assistito o percepito l’evento – a determinare ferite profonde come disturbi del sonno, attacchi d’ansia, senso di colpa o rabbia repressa.

Dopo il delitto, tutto si muove rapidamente: l’intervento delle forze dell’ordine, l’arrivo degli assistenti sociali, le prime decisioni del tribunale per i minorenni. Ma per i bambini inizia un percorso complesso in un sistema che, spesso, non è pronto a rispondere in modo uniforme.

Molti vengono affidati ai nonni, agli zii o ad altri parenti. Famiglie che, a loro volta, vivono un lutto devastante e si ritrovano a dover accogliere e sostenere minori profondamente traumatizzati. Altri finiscono nelle comunità protette, dove si cerca di ricostruire una normalità fatta di orari, scuola, terapie, routine quotidiane.

Ma non sempre le risorse bastano. Le liste d’attesa per il sostegno psicologico sono lunghe, i finanziamenti nazionali spesso non coprono le necessità reali, e la burocrazia rallenta persino l’accesso a borse di studio o contributi economici.

“Il rischio è che questi ragazzi diventino invisibili,” spiegano gli assistenti sociali.

“Non solo perché la loro storia è difficile da raccontare, ma perché l’attenzione pubblica svanisce appena le luci sulla cronaca si spengono.”

Negli ultimi anni sono state introdotte leggi specifiche per garantire sostegni agli orfani di femminicidio: fondi nazionali, accesso gratuito a cure mediche e psicologiche, percorsi universitari agevolati, aiuti per l’inserimento lavorativo. Tuttavia, l’applicazione pratica varia molto da regione a regione.

In alcune aree del Paese esistono protocolli virtuosi che mettono in rete tribunali, scuole, ospedali e centri antiviolenza. In altre, invece, le famiglie affidatarie restano sole per mesi, senza supporto psicologico adeguato né orientamento sui loro diritti. Il risultato è una disparità che si traduce in percorsi di vita molto diversi: c’è chi riesce a ricostruirsi, e chi invece resta intrappolato tra silenzio, stigma e mancanza di aiuti.

Ogni ragazzo elabora il trauma a modo suo. Alcuni sviluppano una forte diffidenza verso le relazioni affettive: temono di ripetere gli schemi di violenza visti in casa, o di perdere di nuovo una figura cara. Altri si aggrappano con determinazione ai legami rimasti, trovando nella scuola, nello sport o negli amici una via per ricostruire la propria identità.

Molti raccontano di sentirsi “figli di una storia che non hanno scelto”, condannati a essere ricordati solo per ciò che è accaduto ai loro genitori. Per questo numerosi psicologi insistono sulla necessità di percorsi terapeutici di lungo periodo, che non si limitino all’emergenza ma accompagnino il minore nell’adolescenza e nella prima età adulta.

Perché se ne parla così poco? Perché nelle cronache dei giornali, raramente vengono raccontate le storie di chi resta?

Una ragione è la tutela della privacy dei minori. L’altra è l’estrema complessità di queste esperienze, difficili da narrare senza rischiare di spettacolarizzare il dolore. Eppure, far conoscere la loro realtà è indispensabile per spingere le istituzioni e la società civile a non dimenticare.

Gli orfani di femminicidio non chiedono pietà né compassione. Chiedono riconoscimento, strumenti, opportunità. Chiedono di non essere condannati a vivere all’ombra della violenza.

Affrontare la questione degli orfani di femminicidio significa lavorare su tre fronti:

  • 1.          Prevenzione della violenza: educazione affettiva nelle scuole, campagne di sensibilizzazione, sportelli d’ascolto.
  • 2.          Supporto immediato e continuativo: psicologi specializzati, assistenti sociali formati, sostegni economici rapidi e concreti.
  • 3.          Accompagnamento nella crescita: borse di studio, percorsi di autonomia abitativa e lavorativa, tutor dedicati.

Non esistono soluzioni semplici, ma esiste la responsabilità collettiva di non lasciare soli bambini e ragazzi che hanno visto la violenza più estrema dentro le mura della loro casa.

Gli orfani di femminicidio sono la parte più fragile e nascosta della violenza di genere. Sono minori che non hanno colpe, ma che portano sulle spalle ferite profonde e un’eredità emotiva complessa. Garantire loro un futuro sereno non è un gesto di carità: è un dovere civile.

Raccontare le loro storie significa affermare che la violenza non può e non deve definire il destino di nessuno. Significa dire, come società, che ogni bambino ha diritto a crescere in sicurezza, amore e dignità.

E che, anche quando tutto sembra perduto, la comunità può e deve diventare la loro nuova casa.

Nicola Incampo

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