venerdì, 5 Dicembre 2025

Quando accade che, durante una diretta televisiva, vediamo parlamentari – cioè rappresentanti eletti dal popolo – alzare le mani, insultarsi o addirittura tentare di picchiarsi, la sensazione che proviamo come cittadini non è solo di imbarazzo, ma anche di profonda delusione. Si tratta di episodi che fanno rumore, che rimbalzano subito sui social, nei telegiornali, nei talk show. Ma oltre allo scandalo del momento, bisognerebbe soffermarsi a riflettere sul messaggio culturale e sociale che questi comportamenti trasmettono.

Il Parlamento è, per definizione, il luogo del confronto politico. È l’istituzione simbolo della democrazia, dove opinioni anche molto diverse tra loro devono trovare espressione attraverso il dibattito civile. In aula si portano idee, non spintoni. Si usano le parole, non le mani. Quando invece assistiamo a scene di violenza – fisica o verbale – all’interno di un’istituzione tanto importante, si rompe qualcosa: non solo nel rispetto delle regole democratiche, ma anche nel rapporto di fiducia tra cittadini e politica.

Episodi di questo genere sono, prima di tutto, profondamente diseducativi. Non soltanto per i giovani, ma per tutti. Offrono un esempio negativo di come si affrontano i conflitti e le divergenze: non con l’ascolto e l’argomentazione, ma con la prepotenza e la rabbia. E questo è pericoloso, perché finisce per legittimare un’idea distorta della convivenza civile, dove chi urla più forte – o è più aggressivo – pensa di avere ragione o di potersi imporre sugli altri.

In secondo luogo, scene del genere contribuiscono a impoverire ulteriormente il già fragile rapporto tra cittadini e istituzioni. Una parte crescente della popolazione vive la politica con distacco, con scetticismo, o peggio ancora con disprezzo. Vedere chi dovrebbe rappresentare il Paese comportarsi in modo indecoroso non fa altro che alimentare questa sfiducia. E quando le istituzioni perdono credibilità, ne risente tutto il tessuto democratico: si abbassa il livello del dibattito pubblico, cresce l’astensionismo, e le soluzioni ai problemi collettivi diventano sempre più difficili da costruire.

È importante sottolineare che non si tratta solo di “scene spiacevoli” o di “momenti di tensione”. Quando un rappresentante delle istituzioni cede alla violenza, anche solo nel gesto o nel tono, sta violando una responsabilità morale. Perché chi fa politica, in Parlamento o altrove, non rappresenta solo se stesso o il proprio partito: rappresenta il Paese, la Costituzione, i valori fondamentali della nostra società.

Per questo, serve un serio richiamo alla responsabilità e alla sobrietà. Non si chiede ai politici di essere perfetti, ma di essere all’altezza del ruolo che rivestono. Di ricordare che ogni loro gesto ha un impatto, ogni loro parola può educare o diseducare, costruire o distruggere. E che il primo dovere di chi fa politica è dare l’esempio, anche e soprattutto nei momenti di tensione e disaccordo.

La politica non è – o non dovrebbe essere – una guerra tra fazioni, ma un impegno collettivo per migliorare la vita di tutti. E se chi ci rappresenta non è in grado di discutere con rispetto e maturità, come possiamo sperare che lo facciano i cittadini nella vita di ogni giorno?

È tempo di restituire dignità al dibattito pubblico. Per farlo, occorre partire da una cultura del rispetto: delle persone, delle idee, delle istituzioni. Solo così si può ricostruire una politica che sia davvero al servizio della comunità, e non uno spettacolo indecoroso trasmesso in diretta nazionale.

Nicola Incampo

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