Lunedì 25 novembre p.v. alle 17.30 nella Sala Laura Battista della Biblioteca provinciale di Matera (ingresso da via Roma), il Soroptimist Club Matera con il patrocinio dell'Associazione Italiana Donne Medico, nell'ambito della Giornata Internazionale per...
A volte viviamo uno strano destino: ci torturiamo a cercare gioia, valori, speranze fuori di noi gettandoci sulle cose, mentre ignoriamo di avere a portato di mano la chiave della felicità.
Anzi ignoriamo di averla dentro di noi, nel segreto della nostra coscienza.
Ricordo che ai miei alunni raccontavo sempre questo racconto simbolico del filosofo danese Soren Kierkegaard.
Soren Kierkegaard nacque a Copenhagen, in Danimarca, nel 1815 e condusse una vita priva di eventi particolari: si allontanò raramente dalla sua città natale e, dopo la morte del padre, ereditò una cospicua somma in denaro che gli permise di dedicarsi unicamente ai suoi studi e di evitare di dover lavorare per guadagnarsi da vivere.
La vita di Kierkegaard fu segnata, sin dalla giovane età, da una spiccata vena malinconica, introspettiva e da un grosso senso di colpa. Il filosofo pensava di aver ereditato, dal padre Michael, una grossa maledizione divina causata da una “grave colpa”. Difatti, dopo aver perso prematuramente la moglie e cinque dei sette figli, Michael credeva di essere caduto vittima di una maledizione secondo cui avrebbe visto morire tutti i suoi figli. La colpa di tale destino era di aver maledetto Dio, all’età di undici anni, incolpandolo della sua misera vita di pastorello o, forse, di aver sposato, pochi mesi dopo la morte della prima moglie, la domestica (che sarà la mamma di Soren). Si pensa che Soren abbia mandato a monte il suo fidanzamento con Regina Olsen per non vedere ricadere questa maledizione anche sui suoi figli. E inoltre, la morte del padre e di tutti i suoi fratelli, quando non era ancora 25enne, lo convinsero che il suo destino era segnato, spingendolo a scrivere più che poteva. Il fato volle che i timori del filosofo si avverarono e si spense a soli 42 anni.
Il racconto è il seguente: “Un giorno all’improvviso, il capriolo porta-muschio delle montagne avverte nelle narici il soffio di un profumo muschiato. Non si rende conto da dove provenga, ma ne è affascinato e corre di giungla in giungla alla ricerca del muschio. Si sente costretto a cercarlo attraverso burroni e foreste, rinuncia a bere, a mangiare e a dormire, finchè esausto e affamato precipita da una cima, mortalmente schiantato nel corpo e nell’anima.
Il suo ultimo gesto prima di morire è di avere di se stesso e di leccarsi il petto … dove – o prodigio! – viene a scoprire che la sua tasca-muschio gli si è sviluppata sul petto.
La bestiola, allora, ansima profondamente, tendando di aspirare quel profumo, se non è troppo tardi…
Non cessare di cercarlo dentro di te, e vedrai che lo troverai”.
Parafrasando Sant’Agostino potremmo dire che noi non cercheremmo Dio se lui stesso non ci spingesse a farlo proprio dall’interno del nostro cuore.
Nicola Incampo
Responsabile della CEB per l’IRC e per la pastorale scolastica