Vedendo la TV e leggendo i giornali mi sono chiesto: “Ma è normale essere sposati da 43 anni?” Sì, essere sposati da 43 anni non solo è assolutamente normale, ma può essere considerato anche un segno molto positivo di stabilità, impegno e crescita condivisa. Ogni...
“Stesa ora sul divano, mentre scorre sul telefono la bacheca di un social leggendo le ultime dichiarazioni intelligenti di una scrittrice sua coetanea, Carla sa di essere di nuovo atterrata in un qualche luogo doloroso da cui si era allontanata andando via. Allontanata? Carla si era allontanata? Ma fatemi il piacere. Non era mai stata così vicina a quel buco. Anzi, allontanandosene ci era finita dritta dentro. Lei si era allontanata dal suo Paese. Quello sì. Aveva lasciato un lavoro fisso (dillo di nuovo, ma con lo stesso tono con cui lo dice tua madre, ti prego!) per venire qui. Ed esattamente nel momento in cui aveva messo piede nel nuovo Paese, nessuno del vecchio ne aveva voluto più sapere di lei. Ma non era successo in un giorno, non ce l’aveva chiaro in testa neppure lei, sapeva solo che sempre più spesso quel pensiero si affacciava alla soglia cosciente e lei lo ricacciava indietro e poi di nuovo lo tirava in avanti, ci si trastullava come fosse un vibratore, come fosse – quel senso doloroso di abbandono – uno strumento elettrico di sussulti. Aveva cominciato a proporre articoli sul nuovo Paese ma i suoi connazionali le dicevano che, se proprio dovevano spendere soldi, avrebbero preferito comprare articoli di giornalisti americani che scrivevano inchieste che lei manco si sognava. Avete ragione, pensava lei, io di notte mi sogno i miei ex, figuratevi se posso sognarmi queste inchieste meravigliose che dite voi. L’ultimo rifiuto era cominciato con: Il direttore non vuole. Carla si era beata di quella ruvidezza, con quella sciatteria ci si era quasi bagnata. Il rifiuto aveva da sempre, non sapeva da quando in realtà, l’effetto di un orgasmo. Adorava essere delusa”.
Una prosa sferzante fatta da citazioni colte, giochi di parole, rimandi letterari. E uno stile brillante, con tanto ritmo: leggere QUCHI. Quello che ho ingoiato (Edizioni e/o) di Caterina Venturini dal punto di vista puramente letterario è un piacere per la versatilità di un periodare accattivante, se poi si aggiunge una trama molto originale narrata con una punta di leggerezza malgrado la tematica seriosa, ci si immerge in un romanzo che cattura, come un vortice. È un flusso di coscienza, sono ricordi che si intrecciano al presente diventando un tutt’uno di sensazioni. Le proviamo anche noi dalla voce di Carla Longhi che, arrivata in America a quarant’anni per dare un nuovo futuro alla sua famiglia, a un certo punto ha una sorta di blackout: non riesce a parlare, a guidare, a vivere come “loro”, gli autoctoni, quelli che ogni volta abitano un luogo da prima degli altri. A questa impasse si associa un senso costante di inadeguatezza, di inferiorità che Carla avverte e non sa contrastare. Si sente fuori luogo, non all’altezza, è lei un giudice feroce di sé stessa. Riesce a immedesimarsi negli altri, li studia, li giustifica ma a sé non fa sconti. E, inevitabilmente, soccombe compiacendo tutti. Come nella situazione descritta nelle prime pagine, che è indicativa un po’ di tutta la trama. Un boccone di un’autorevole professoressa con cui sta parlando le va di traverso e finisce sulle labbra di Carla che lo ingoia.
“Non sono stata io, giuro, sono state le mie labbra che automaticamente hanno premuto l’una sull’altra a nascondere il bolo, poi la lingua lo ha preso e a quel punto la faringe, pronta, lo ha buttato giù da qualche parte nel mio stomaco. Fatto, finito. Perché la professoressa non deve vedere lo schifo che ha combinato, potrebbe pensare che è colpa mia.”
Ripugnante, disgustoso eppure così impattante da dare la misura della complessità di questa ragazza: tutto quello che ha ingoiato, appunto, da quando è in America. Il marito, per fare in modo che possa sentirsi autonoma, le permette di affittare una stanza della loro casa su Ring: eppure è fonte di ansia non per la modalità del lavoro in quanto tale ma per le recensioni degli affittuari che rischiano di far abbassare la media non rendendo “appetibile” la stanza. Di contro, Carla, è alla stregua di un agnello sacrificale: si squalifica, si svaluta, amplifica ciò che non va innescando un circolo vizioso che è sempre più difficile interrompere. Gli articoli che non riesce a piazzare, il nuovo romanzo che non riesce a pubblicare (c’è anche un piacevole spaccato semiserio sul mondo dell’editoria, dei salotti letterari), un complesso verso il naso irregolare… una serie di fallimenti e l’incapacità di reagire in maniera forte.
Parlando alla sua psicanalista online in Italia, nella sua lingua, ripercorre le proprie ossessioni, le paure, il senso di colpa per buttarsi in sempre nuove avventure senza essere abbastanza equipaggiata.
Le promesse dell’infanzia, i fallimenti e i lutti dell’età adulta, la nuova ricerca di sé e la perpetua domanda su quanto siamo disposti a ingoiare per essere amati dagli altri e per piacere finalmente a noi stessi.
L’Autrice si dimostra un’osservatrice minuziosa, acuta, obiettiva che non ha paura di osare scandagliando stati d’animo: chissà quante somiglianze ci sono (probabilmente tante, anche la Venturini si è trasferita a Los Angeles proprio come Carla) e in quante vicende simili a quelle di questo splendido personaggio si è imbattuta. Una cosa è certa, quella della Venturini è una penna irresistibile.
Caterina Venturini, scrittrice e sceneggiatrice, è nata ad Amelia, in Umbria, e ha vissuto per molti anni a Roma. Italia ha insegnato nella scuola secondaria e collaborato con la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato due romanzi, L’anno breve (Rizzoli 2016) e Le tue stelle sono nane (Fazi 2009), saggi di critica letteraria su rivista (“Quaderni del ’900”, “Nuovi Argomenti”, “Avanguardia” e altre), articoli e racconti. È stata sceneggiatrice del film Anni felici di Daniele Luchetti (2013, sceneggiatura candidata al Nastro d’argento).
Rossella Montemurro