Fotografo, ingegnere, chirurgo, medico umanitario, poliziotto: Ricardo (o Alexandre, Daniel o Richard) è tutte queste cose. Ed è, soprattutto, abilissimo "a cambiare maschera, a contraffare i sentimenti più vari, a tramare inganni più astuti di Ulisse, a piangere,...
Professore, aiutatemi a uscire dal tunnel della droga
In un pomeriggio qualunque, in una strada come tante, si consuma un incontro che scuote, che ferisce e che fa pensare. Un insegnante in pensione esce di casa per una passeggiata e si imbatte in un volto noto, invecchiato prima del tempo, scavato, consumato. È un suo ex alunno. Non ci sono convenevoli. Lo sguardo è diretto, la voce tremante: “Professore… aiutatemi a uscire dal tunnel della droga.”
Una frase semplice, ma capace di squarciare il velo d’indifferenza che spesso accompagna le nostre vite. In quell’appello c’è tutto: disperazione, ricordo, dignità, paura.
E soprattutto: speranza.
Sì, perché chi chiede aiuto sta ancora combattendo. E questo va ascoltato.
Un incontro, una ferita, una responsabilità collettiva.
L’ex alunno, che chiameremo Marco, ha poco più di trent’anni.
“Era uno di quei ragazzi che faceva fatica a stare fermo, ma aveva occhi vivi, una curiosità istintiva. Non era il primo della classe, ma aveva un’intelligenza autentica. Oggi ho visto la stessa persona, ma piegata dalla sofferenza, segnata dalle scelte sbagliate. Eppure ha trovato il coraggio di parlare.”
Quell’incontro fortuito ha aperto uno squarcio su una realtà che in Italia è troppo spesso nascosta sotto il tappeto: la dipendenza da sostanze, il disagio giovanile, il fallimento delle reti educative e sociali. Non è solo una storia personale. È una lente su qualcosa di molto più grande.
Secondo i dati diffusi dal Dipartimento per le Politiche Antidroga, nel 2024 in Italia circa 560.000 persone facevano uso regolare di sostanze stupefacenti. Tra queste, oltre 300.000 sono under 35. E non si parla solo di “droghe pesanti”: crescono in modo allarmante anche l’abuso di psicofarmaci, cannabis sintetica e nuove sostanze psicoattive.
Il problema? I servizi di assistenza spesso non riescono a intercettare per tempo i soggetti a rischio. Troppe famiglie si ritrovano sole, disorientate, senza strumenti per riconoscere i segnali d’allarme. La scuola, che dovrebbe essere presidio educativo e di prevenzione, è sovraccarica, mal supportata, e talvolta impotente davanti a problemi così complessi.
Marco non ha chiesto soldi, né ha inventato una scusa. Ha chiesto aiuto. Diretto. Senza filtri. “Professore, aiutatemi”. Questo ci dice qualcosa di potente: la scuola, nonostante tutto, resta un punto di riferimento. Anche dopo dieci, quindici anni. L’insegnante non è solo colui che spiega storia, matematica o religione. È qualcuno che lascia un’impronta, che viene ricordato nei momenti di crisi.
Marco lo sapeva. Per questo è tornato lì, a quel volto familiare.
Ho subito contattato i servizi sociali della zona. “Ho capito che non potevo essere io a salvarlo, ma potevo fare da ponte”.
E proprio questo è il punto: nessuno può farcela da solo, ma ciascuno può diventare un nodo nella rete.
L’incontro tra Marco è anche una denuncia silenziosa: delle istituzioni assenti, dei servizi territoriali spesso sguarniti, del pregiudizio che ancora accompagna chi vive un problema di dipendenza.
Non basta punire. Non serve solo dire “smettila”. Serve ascolto. Serve vicinanza. Serve ricostruire reti umane, comunitarie, che sappiano riconoscere il disagio prima che si trasformi in tragedia.
E soprattutto serve educazione emotiva, sin dalle scuole primarie. Serve dare ai giovani parole per descrivere quello che sentono, strumenti per affrontare frustrazioni, fallimenti, paure. Perché spesso chi cade nella droga non cerca lo sballo, ma una tregua.
Marco oggi è in contatto con un centro di recupero. Non sarà facile. Nulla è garantito. Ma ha fatto il primo passo, il più importante: ha parlato. Ha chiesto aiuto. E lo ha fatto non a un medico, non a uno psicologo, ma a un insegnante. Una figura che non vedeva da anni, ma che nella memoria era rimasta come un punto fermo.
Questo significa che una società che ascolta è una società che salva.
C’è un’Italia che cade, e un’Italia che tende la mano.
Il futuro dipende da quale delle due vogliamo alimentare.
Ogni storia come quella di Marco è una possibilità di cambiamento. Una possibilità di svegliarci, di fare rete, di tornare a credere che nessuno si salva da solo, ma che tutti possiamo essere strumenti di salvezza per qualcun altro.
Cosa gli ha lasciato questo incontro?
“Mi ha ricordato perché ho scelto di insegnare. Perché a volte, anche dopo vent’anni, un solo ‘aiutami’ può valere tutta una carriera.”
Nicola Incampo

