venerdì, 27 Dicembre 2024

Un esordio brillante nel 2009, Pulce non c’è, pubblicato da Einaudi e diventato un film nel 2012. Gaia Rayneri ha soltanto 23 anni quando debutta con un libro che riscuote consensi di critica e di pubblico. Quel libro, più o meno autobiografico, le permette di raggiungere l’indipendenza economica, di andare a vivere da sola e le prospetta un futuro sereno – ha già un contratto per un secondo volume. Accade invece che all’improvviso una sensazione sgradevole e opprimente arrivi a pervaderla, uno spleen permanente che con lei diventa tutt’uno, impedendole una vita normale. Una quotidianità negata, una routine interrotta: Gaia non ha più voglia di lavorare, di incontrare gli amici, di uscire di casa.

Dopo una visita con uno psichiatra, arriva il responso: ha un “disturbo borderline di personalità”.

“Dicono che le persone “borderline” siano «ricoperte da ustioni di terzo grado sul 90 per cento del corpo». Sono come “senza pelle”, e non hanno chiari i confini di sé. Non sanno dove cominciano né dove finiscono né dove andranno a finire. È una lettura estrema, che spesso mi è sembrata l’unica in grado di cogliere l’intensità del dolore che provavo.”

All’inizio, malgrado le sedute di psicoterapia e gli psicofarmaci, la situazione non migliora. L’analisi non sembra giovarle, è come se rimanesse in una situazione di stallo: forse non ha incontrato psicoterapeuti bravi, forse non è quello l’approccio giusto per il suo caso – lei stessa afferma di non sapere in modo univoco quali dei miglioramenti attribuire alla psicanalisi, e quali alle altre pratiche di consapevolezza svolte in seguito. Non va meglio con i farmaci, complice l'”effetto paradosso”, quel meccanismo che fa peggiorare anziché migliorare i sintomi della malattia: “Ho provato più di quindici psicofarmaci nel mio percorso di “cura”, e quasi sempre ho fatto esperienza dell’“effetto paradosso”.”

Gaia, poi, quando parla del suo problema lo fa con un tono morbido, quasi si riferisse a un’altra persona e lei stessa si chiede se questo non abbia contribuito a stemperare negli occhi di chi l’ha accompagnata nel percorso terapeutico la vera portata del suo malessere.

Procede così per tentativi ed errori, le viene detto chiaramente con quel disturbo dovrà convivere. L’obiettivo, insomma, non sembra essere lo “stare bene” quanto lo “stare meno peggio”.

“La mia “guarigione” veniva data per poco probabile, e riguardo alla mia felicità futura si poteva al massimo parlare di “remissione dei sintomi” o del loro “contenimento”.”

Ad aiutarla è la meditazione: basta cambiare sguardo, abbandonando quello che contrappone la sanità e la normalità alla malattia, rinunciando alla prospettiva delle definizioni diagnostiche a favore della prospettiva dell’anima, “quel puntino di luce infinita che c’è dentro ognuno di noi”. Una prospettiva fatta di cura di sé, di accettazione delle proprie ferite, della comprensione che il dolore può essere un dono.

“Oggi sono una persona felice, ho incontrato un amore che auguro a chiunque, ho un lavoro che mi appassiona, molti amici e molti interessi: così tanti che mi chiedo se avrò tempo per coltivarli tutti – e rassicuro eventuali psicologi sul fatto che non mi trovo in una fase maniacale.

Soffro anche, come tutti. Ma quando soffro, mi sembra di soffrire in modo più felice rispetto a prima, perché anche il dolore ha trovato il suo posto”

Spesso, come nella celebre frase attribuita a Rilke, le nostre paure più profonde sono come i draghi delle fiabe che proteggono i nostri tesori più grandi.

“(…) Quando ero “senza pelle” – e per anni avevo creduto di non poter far altro che esserlo, per via delle mie ferite e del mio “disturbo” – chiunque poteva ferirmi di nuovo, e il dolore andava ad aggiungersi a tutto quello che avevo già dentro.

“Con la pelle”, riuscivo più facilmente a percepire chi o cosa mi feriva. E anche ad accorgermi che, malgrado ciò che la diagnosi sembrava prevedere, non avevo alcun desiderio cosciente di essere ferita.”

Questo libro non è, come potrebbe sembrare, solo il racconto di anni difficili vissuti dall’autrice ma la bella storia di una guarigione, un’autobiografia che infonde speranza. L’esperienza di Gaia, narrata in maniera autentica senza tralasciare anche i momenti più critici, si lega a ciò da cui lei di positivo ha attinto dal Cristianesimo al Buddismo, da Freud a Seneca, da Foucault alle tecniche di meditazione.

Un libro di guarigione ha sul lettore un potere terapeutico, mostrandogli come affrontare i dolori, le difficoltà e le solitudini anche quando sono apparentemente insormontabili e ricordando che la felicità dell’anima è l’obiettivo più importante e più raggiungibile che esista.

“È il racconto – scrive l’autrice – della mia esperienza personale, che scelgo di condividere perché spero possa essere utile: per questo confido che chi legge possa esercitare un’attenzione non giudicante riguardo a ciò che racconto. (…) È la storia di come la coscienza possa passare dalla sofferenza e dalla malattia a uno stato di pienezza e gioia, una volta individuati – e individuando ogni giorno – i meccanismi attraverso cui il dolore si crea.”

Gaia Rayneri è nata nel 1986 a Torino e vive tra la Sardegna e un piccolo paesino dell’Inghilterra meridionale. Ha pubblicato anche Dipende cosa intendi per cattivo (Einaudi, 2018) e Ugone, un libro illustrato per bambini (Rizzoli children). Scrive per il cinema e disegna.

Rossella Montemurro

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