Un flusso di coscienza, un’autoanalisi, scene di interni in una famiglia come tante, ricordi, rimorsi, descrizioni nitidissime… Ci sono tante cose e tutte raccontate in modi differenti – l’introspezione, lo sguardo disincantato, il piglio critico – in Vite mie (Mondadori), il nuovo romanzo di Yari Selvetella. Tante “frazioni” di vita dell’io narrante, Claudio Prizio, romano con una famiglia molto allargata “in cui i legami di sangue non sono decisivi” (“di sei che siamo in casa nessuno è nato dagli stessi genitori”).
“Non so più amare, chiedo perdono a tutti”. È questo l’incipit di un romanzo che in realtà trasuda amore, malgrado tutto. Claudio anni prima ha perso G., la sua fidanzata, e si è ritrovato con una nidiata di figli – uno suo e di G., gli altri acquisiti.
“Quando muore una persone giovane il lutto è una montagna aperta: il ferro, la magnetite, è tutto a vista, tutto riluce; pesa e splende quel che l’apparenza non può trattenere, la cava è a ingresso libero, le gallerie sono agibili e conducono dritte al buio profondissimo.
Poi s’alza il vento, bisogna provare a vivere. L’aria graffia le cime, solleva i pulviscoli, smuove le limature, vela, progressivamente colma, senza sfoggio di tenacia ma non costanza prosegue la sua azione: erode.
Ai più basta (…)”.
Dopo poco si è innamorato di Agata: “(…) Siamo come gli altri: le apparenze della nostra famiglia sono fuorvianti, e fin qui nulla di strano, non è certo raro che questo accada. Bisogna riconoscerci, tuttavia, una storia piuttosto insolita: le simmetrie che ci riguardano non le abbiamo fondate noi; le abbiamo, per così dire, ereditate.
Prima che io fossi uno dei protagonisti di questa disposizione di persone e cose, c’era un altro uomo nel mio stesso ruolo, a imprecare al volante, a comprare lo sciroppo per la tosse, a godersi i primi passi di un pupo; come me, prima di me, nella stessa casa. E prima ancora ce n’era un altro.
Prima di Agata era un’altra donne ad amare, a sgridare, ad ascoltare musica in salotto.
Forse è un po’ macabra l’idea che ciascuno di noi occupi un posto che non gli appartiene fino in fondo, ma noi l’abbiamo scelta e vissuta anche come una vittoria; nessun fendente menato dalla sorte, nessuna perdita, nonostante tutto, è riuscita a dissolverci. Niente ha avuto la meglio su quel che avevamo di più caro: sceglierci, volerci bene.”
In una Roma prodiga di incontri Claudio, alla costante ricerca di sé stesso non fa che ravvisare somiglianze con le persone in cui si imbatte: un guidatore distratto che quasi lo investe al semaforo, un rocker attempato, un agente immobiliare, una donna che si è rifugiata in campagna. I suoi simili sono specchi, ma anziché aiutarlo a comprendere la propria identità, sembrano avvilupparlo in un gioco di riflessi senza scampo. Questi aneddoti sono il corollario di una marea di ricordi, sensazioni e situazioni che lo travolgono, sempre nel segno dell’amore e delle sue infinite sfaccettature, nei molteplici legami in cui si snoda. Poetico, profondo, mai banale: è questo lo stile inconfondibile dell’Autore.
Yari Selvetella è nato a Roma nel 1976. Tra i suoi ultimi romanzi Le regole degli amanti (Bompiani 2020), premio Cambosu, Le stanze dell’addio (Bompiani 2018), candidato al premio Strega, La banda Tevere (Mondadori 2015). Ha pubblicato il libro di poesie La maschera dei gladiatori (CartaCanta 2014). Si è a lungo occupato di storia della criminalità con saggi e reportage di successo. Giornalista e autore televisivo, lavora per la Rai.
Rossella Montemurro