In un tempo in cui la novità si misura spesso dall’apparenza, e l’attenzione si disperde nei dettagli luccicanti, accade talvolta che sia proprio un dettaglio marginale a rivelare il cuore di ciò che conta. È accaduto durante una delle prime ordinazioni sacerdotali celebrate da Papa Leone, oggi 31 maggio 2015.
Nella solennità di una liturgia che ha saputo fondere la tradizione millenaria della Chiesa con il palpito vivo di nuove vocazioni.
Un rito che ha la forza di scuotere, ogni volta, anche chi vi assiste solo da spettatore. La liturgia dell’ordinazione, con i suoi gesti solenni, il canto delle litanie dei santi, le mani imposte, l’unzione del capo: ogni elemento parla, ogni segno è carico di memoria e di futuro.
Eppure, proprio nel momento più umile e silenzioso della celebrazione — quando i candidati al sacerdozio – tra essi un mio alunno – si sono prostrati a terra, distesi sul pavimento, in segno di totale abbandono e disponibilità alla volontà di Dio — un’immagine inaspettata ha attirato l’attenzione.
Erano le scarpe. Scarpe usurate, consumate. Alcune con le suole lisce, segnate dal tempo. Scarpe visibilmente vissute, non nuove, ma lucidate per l’occasione. Ed è lì, in quel gesto totale di prostrazione, che questo piccolo particolare ha assunto un valore simbolico straordinario.
Quelle scarpe raccontavano una storia.
Non un punto di partenza, ma un cammino che continua
L’ordinazione non è un inizio teatrale, non è un ingresso in scena. È una conferma, un’alleanza pubblica e profonda che suggella un cammino già intrapreso, fatto di anni di formazione, di discernimento, di scelte, di preghiere e di fatica. Quelle suole consumate sono la prova tangibile che i nuovi sacerdoti arrivano all’altare non per cominciare a camminare, ma per continuare a farlo — con ancora più radicalità, con ancora più amore, e con una promessa che durerà per sempre.
Nel linguaggio simbolico della liturgia, anche ciò che non è previsto nel cerimoniale può diventare eloquente. In un mondo che spesso misura la dignità in base a quanto si brilla all’esterno, la liturgia ci richiama con forza a un’altra logica: quella del servizio, della verità, dell’autenticità. Quelle scarpe consumate non toglievano nulla alla solennità del momento; al contrario, la rendevano più vera, più umana, più concreta.
Nella maestosità del rito, che ci ricorda che siamo parte di qualcosa di più grande, le scarpe consumate ci ricordano che siamo anche parte di qualcosa di profondamente terreno. La liturgia, con la sua sacralità, non è un’evasione dal mondo, ma il suo compimento trasfigurato. È lì, in quelle scarpe, che si incontrano cielo e terra. È lì che si vede la carne del Vangelo, fatta di passi quotidiani, di missioni in villaggi lontani, di notti in preghiera e mani tese verso gli ultimi.
Quei sacerdoti si sono presentati davanti a Dio e alla Chiesa così come sono: non con una veste nuova da esibire, ma con i segni visibili di una vocazione vissuta. La loro ordinazione non è stata la posa di una prima pietra, ma l’estensione di una strada già iniziata. Una strada su cui continueranno a camminare, ora con una responsabilità più grande, ma con la stessa umiltà di chi si inginocchia — o si stende a terra — riconoscendo che tutto è dono.
Papa Leone, da poco eletto, ha scelto di presiedere personalmente questa ordinazione. Un gesto forte, quasi paterno, che dice molto del suo stile e del suo desiderio di rimanere vicino a chi inizia questo ministero. Non ha commentato le scarpe dei sacerdoti. Non ce n’era bisogno. Ma chi ha occhi per vedere — come direbbe il Vangelo — ha potuto cogliere che anche da lì passava un messaggio: la Chiesa ha bisogno di pastori che conoscano la strada, che siano stati dentro la polvere del mondo, che abbiano consumato le scarpe per servire.
Forse è proprio da questi dettagli, silenziosi ma eloquenti, che può rinascere una nuova fiducia. Non è l’apparenza a fare la differenza, ma la fedeltà. Non sono le scarpe nuove, ma le scarpe consumate dalla missione, che rivelano la verità di una vocazione.
E a ben guardare, quelle scarpe parlano anche a noi. Parlano alle nostre stanchezze, alle nostre fatiche, ai nostri cammini interrotti. Ricordano che non si è chiamati a essere perfetti, ma disponibili. Che Dio chiama non i migliori, ma coloro che si lasciano raggiungere, toccare, trasformare.
Nel grande mosaico della liturgia, dove ogni gesto ha il suo posto e ogni parola il suo significato, le scarpe consumate dei nuovi sacerdoti sono diventate, in quella giornata, un’icona imprevista e potentissima. Un invito, per tutti, a non smettere di camminare. A non aspettare di essere nuovi per cominciare. A riconoscere che anche con le nostre suole consumate, possiamo continuare a servire, amare, e donare.
Anzi, forse proprio così.
Nicola Incampo
