Oggi vorrei invitarvi a riflettere su un santo sacerdote poco conosciuto: San Giuseppe Cafasso, un santo, come si direbbe oggi, sociale.
Fu chiamato il prete della forca, perché seguì e confortò i carcerati, accompagnando fin sotto il patibolo i condannati a morte.
Nacque a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco, il 15 gennaio 1811 e morì a Torino il 23 giugno 1860.
Nato in una famiglia contadina, Giuseppe Cafassoera terzo di tre figli.
Fu sempre gracile e minuto, «era quasi tutto nella voce», diceva don Bosco, eppure fu un gigante nello spirito.
Padre spirituale, direttore di anime, consigliere di vita ascetica ed ecclesiastica, formatore di preti, a loro volta formatori di altri preti, religiosi e laici, in una sorprendente ed efficace catena, Cafasso fu rettore per 24 anni del Convitto ecclesiastico, che nel 1870 si trasferì al santuario della Consolata, dove oggi riposano le sue spoglie.
Un elemento caratterizza il ministero del nostro Santo: l’attenzione agli ultimi, in particolare ai carcerati, che nella Torino ottocentesca vivevano in luoghi disumani e disumanizzanti.
Anche in questo delicato servizio, svolto per più di vent’anni, egli fu sempre il buon pastore, comprensivo e compassionevole: qualità percepita dai detenuti, che finivano per essere conquistati da quell’amore sincero, la cui origine era Dio stesso.
Era assiduo delle prigioni cittadine, tanto da rimanervi fino a tarda notte, a volte tutta la notte.
Amava in modo totale il Signore, era animato da una fede ben radicata, sostenuto da una profonda e prolungata preghiera, viveva una sincera carità verso tutti.
Conosceva la teologia morale, ma conosceva altrettanto le situazioni e il cuore della gente, del cui bene si faceva carico, come il buon pastore.
Quanti avevano la grazia di stargli vicino ne erano trasformati in altrettanti buoni pastori e in validi confessori.
Indicava con chiarezza a tutti i sacerdoti la santità da raggiungere proprio nel ministero pastorale.
Con il passare del tempo, privilegiò la catechesi spicciola, fatta nei colloqui e negli incontri personali: rispettoso delle vicende di ciascuno, affrontava i grandi temi della vita cristiana, parlando della confidenza in Dio, dell’adesione alla Sua volontà, dell’utilità della preghiera e dei sacramenti, il cui punto di arrivo è la Confessione, l’incontro con Dio fattosi per noi misericordia infinita.
I condannati a morte furono oggetto di specialissime cure umane e spirituali. Egli accompagnò al patibolo, dopo averli confessati ed aver amministrato loro l’Eucarestia, 57 condannati a morte.
Li accompagnava con profondo amore fino all’ultimo respiro della loro esistenza terrena.
Nicola Incampo
Responsabile della CEB per l’IRC e per la pastorale scolastica