Il mulino l’ho alle spalle, in pietra e legno, con il ponte in legno ricostruito. Mia grande passione i mulini, e la loro ruota meccanica pesante e leggiadra.
Gira gira e macina al ritmo dell’acqua.
Qui è tutto restaurato o ricostruito, è un albergo e un ristorante. I fiori sono nei vasi sulle finestre, come d’uopo.
Le arcate in pietra sono possenti, c’è la macina appoggiata al muro come testimone del tempo in cui il fiume correva florido accanto.
Il recinto è in legno, le ghiere delle finestre in mattoni messi in mezzo alle pietre calcaree squadrate. È una specie di ologramma del passato. Un passato recente perché mi pare un mulino storico di inizi novecento. Potrei sbagliare, è troppo nuovo per capirlo. Mantiene il suo fascino, quello degli antichi mestieri.
Sento in lontananza le voci dei bambini che giocano sulle giostrine, un vociare allegro ma lontano. Un’eco di sogni nel gorgogliare delle cascatelle artificiali del fiume Frida. È un riottolo con poca acqua che per rendere allegra gli uomini hanno ostacolato con piccoli salti di pietre. L’acqua ha scavato quelle pietre e prende le forme che più le aggradano: in alcuni punti le bocche corrispondono agli interstizi tra i conci; in altri a una conca posta al centro o ai lati.
La via l’acqua la trova per comodità sua, è così che costruisce scavando: va dove è condotta naturalmente e lì si fa la sua via.
Non sfida, si accomoda. Anche perché sa che vince e non sfida.
C’è l’odore forte delle resine, della menta, della rucola. Delle foglie secche e umide. Anche l’acqua ha un odore tutto suo. L’acqua che corre nei boschi odora di boschi.
Leggerissimo si sente il vento, attraverso il movimento impalpabile delle foglie. Sibila e accarezza senza invadere. La natura è sensoriale, per migliaia di volte i nostri tentativi di personali “sensoriali”.
C’è il rumore del mescolato, del fuso, dell’ognuno che diventa tutti.
Un’armonia che comprende le risate dei bambini sulle giostrine che parlano e giocano come amici di sempre. Aguzzando le orecchie si sente anche il rumore dell’ansia sopita dei genitori che concedono e si concedono libertà di stare. Di stare punto e basta.
La gente è poca, pure se troppa per questi luoghi scarsamente frequentati.
Ci sono poi i colori, anche loro hanno un odore ovviamente. Però hanno anche le sfumature: il verde ne ha mille, il giallo poche per ora, il marrone trapela umido; l’azzurro è nelle pozze sotto le cascate, è un azzurro solido. Sembra quel vetrino colorato che mettiamo nei presepi per fingere un laghetto per le paperelle.
Nel contempo emerge il grigio dei ciottoli tra le trasparenze del torrente e le ninfee raggruppate amichevolmente.
Se tocchi un fiore ti lascia un segno, il polline ti colora le dita, se calpesti il sottobosco ti sembra di camminare sulle caramelle gommose. I crepitii delle foglie sono assenti perché è tutto umido e rigoglioso. Se ti tocchi la faccia i pori dilatati sono porte per purificarsi, lo senti che il grigio se ne sta andando. Mentre l’ossigeno dentro di te combatte l’anidride carbonica e i microbi che si preparano all’inverno.
L’udito, la vista, l’olfatto, il tatto.
Manca il gusto.
Di quello forse non puoi fruire, le more e le fragoline di bosco non sono sopravvissute al Ferragosto festoso e accalcato. Ma è tanto potente il loro gusto che ne senti il sapore in bocca anche se incontri solo rovi spogliati.
Se siamo troppi e troppo affollati ce lo dice oggi il bosco, perché questi rumori silenziosi, questi odori autentici, queste vedute inimitabili e ogni cosa, ogni piccola cosa, ci dice che troppa presenza invade.
Io oggi penso a Matera invasa dai turisti, in mezzo al bailamme degli odori seriali, delle cartoline corrotte, dei ritmi alterati e continuo a chiedermi se ciò che costruiamo a tavolino è quello che dobbiamo continuare a vedere. Senza pretendere da noi stessi un po’ di autenticità. Nel proporre e nel cercare, con equa responsabilità.
Rifletto seduta da sola su questa panchina di fronte al fiume torrentizio, e ripenso a quando mi sedevo su un terrazzo della gravina e sentivo il rumore dell’acqua, il tintinnio delle podoliche al pascolo, delle rane dove l’acqua stagnava un poco. Il burrone aspro e profondo, quelle pareti scoscese che offrivano piccoli e generosi percorsi di discesa ridimensionavano te e i tuoi fagotti di tristezze e amarezze. Di fronte a quel confine tra il centro della terra e il cielo eri piccolo e piccoli erano i tuoi guai del momento.
Ho pensato a quante volte ho voluto condividere quella magia con i miei ospiti di allora: mentre di fronte la città viveva il rumore delle faccende quotidiane, noi dall’altro capo della gravina, immersi nel silenzio, potevamo godere di quel tepore quasi onirico. Completamente immersi nel presente. Mille volte mi sono detta: questa è la magia! Mille volte mi chiedo ora guardando Matera brulicante di persone al trotto con il naso in su a fare foto alla povertà contadina: ma è questa la magia?!
Non so rispondere di sì, ci sono molte ragioni per avere a cuore lo sviluppo turistico di un luogo. Ma per me è dominante la differenza, la divergenza, la peculiarità. Ogni luogo è un luogo, è quel luogo, è IL luogo. La riproduzione seriale di ciò che piace rende ogni luogo un luogo qualsiasi ed è ciò che noi alla fine impariamo a conoscere. Viaggiare diventa ripassare certi temi, con quell’esercizio costante che accresce lo stesso piacere e lo stesso medesimo gusto.
Si annulla il senso del viaggio. Si atrofizza la conoscenza. Si contrae il gusto.
Gli odori li andiamo a sentire nei musei inclusivi, come offerta formativa.
A me pare davvero troppo umiliante.
Un viaggio tra Rotonda, Mezzana del Frida e Laino Borgo, luoghi che si sperimentano e conservano un calore che ossigena. Ai miei compagni di questi giorni