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La strage del ’90 in un Seminario del Burundi: il coraggio e la forza evangelica di 40 ragazzi

Oggi vorrei fare una riflessione a proposito di quello che avvenne in un Seminario del Burundi nei primi anni ‘90 del secolo scorso.

Il Burundi era attraversato da forti tensioni tra le due etnie maggioritarie, gli hutu e i tutsi.

Gli hutu rappresentano circa l’85% della popolazione, i tutsi solo il 14%.

Anche nelle scuole cattoliche e nei seminari esistevano divisioni degli spazi comuni in base alle etnie.

Il Seminario di Buta, situato nel sud del Paese e nel territorio della diocesi di Bururi, costituiva un’eccezione: lì i giovani allievi, aiutati dal loro rettore, imparavano come superare le differenze reciproche.

Il 30 aprile 1997, verso l’alba, il Seminario fu attaccato da duemila uomini del Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (C.N.D.D.).

Ai seminaristi di una delle due camerate fu ordinato di dividersi tra hutu e tutsi, ma nessuno di essi volle abbandonare i propri compagni.

Quaranta di loro, allievi del Seminario Minore, tra i quindici e i vent’anni, vennero uccisi, a colpi di fucile e di granate, spesso finiti con il machete.

Al sorgere dell’alba del 30 aprile 1997, verso le ore 5.30, un gruppo di duemila uomini del Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (C.N.D.D.), ribelli hutu, guidati da una donna, attaccò il Seminario.

Un sopravvissuto ha dichiarato:
“All’epoca gli allievi erano duecentocinquanta, divisi in due camerate: quella per i ragazzi tra i tredici e i quindici anni e quella per gli studenti fino ai ventiquattro anni. I militari entrarono nella seconda camerata, ordinando ai ragazzi di separarsi: gli hutu da una parte, i tutsi dall’altra.
Gli uomini armati volevano ucciderne solamente una parte, ma i giovani seminaristi si rifiutarono categoricamente, preferendo dunque morire insieme. Si presero per mano, mentre qualcuno di loro esclamava: «Siamo tutti burundesi, siamo tutti figli di Dio».
A quel punto, gli aggressori si scagliarono sui ragazzi e li massacrarono a colpi di fucili e di granate. Alcuni allievi furono uditi cantare Salmi di lode, altri parlare in lingua madre dicendo: «Perdona loro Signore, perché non sanno quello che fanno». Altri ancora, anziché combattere o tentare di salvarsi, cercarono piuttosto di aiutare i loro fratelli agonizzanti, sapendo bene che in tal modo li avrebbe attesi la medesima sorte.”

Un sopravvissuto ha dichiarato:

«Erano tantissimi, mi sono sembrati cento. Sono entrati nel nostro dormitorio, quello delle tre classi del ciclo superiore, e hanno sparato in aria quattro volte per svegliarci… Subito hanno cominciato a minacciarci e, passando fra i letti, ci ordinavano di dividerci, hutu da una parte e tutsi dall’altra. Erano armati fino ai denti: mitra, granate, fucili, coltellacci… Ma noi restavamo raggruppati! Allora il loro capo si è spazientito e ha dato l’ordine: “Sparate su questi imbecilli che non vogliono dividersi”. I primi colpi li hanno tirati su quelli che stavano sotto i letti… Mentre giacevamo nel nostro sangue, pregavamo e imploravamo il perdono per quelli che ci uccidevano. Sentivo le voci dei miei compagni che dicevano: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Io pronunciavo le stesse parole dentro di me e offrivo la mia vita nelle mani di Dio».

Il 21 giugno 2019, nella cattedrale di Bururi, monsignor Venant Bacinoni, vescovo di Bururi, ha aperto il processo diocesano per l’accertamento del martirio in odio alla fede per i quaranta seminaristi al  coraggio dimostrato e alla forza evangelica di testimonianza del loro martirio.

Nicola Incampo

Responsabile della CEB per l’IRC e per la pastorale scolastica

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