Non tutti i viaggi nascono per fede. Alcuni cominciano per caso, o per curiosità, o per il semplice desiderio di vedere un luogo nuovo.
Così è iniziato il mio viaggio a Paola, un piccolo centro della Calabria affacciato sul Tirreno, famoso in tutta Italia per aver dato i natali a San Francesco di Paola, patrono della gente di mare e figura spirituale tra le più amate nel sud. Non sapevo che quel viaggio, apparentemente semplice, sarebbe diventato qualcosa di molto più profondo. Qualcosa che ancora oggi porto dentro.
Era una mattina di primavera, tiepida e luminosa. Le colline che circondano il paese erano verdi e piene di vita, e l’aria sapeva di mare e resina.
Avevo letto che il Santuario di San Francesco si trovava poco fuori dal centro abitato, immerso in una valle silenziosa, attraversata da un piccolo fiume. Decisi di andarci, più per rispetto alla cultura locale che per un autentico impulso spirituale. Non mi aspettavo niente di straordinario. Eppure, è proprio quando non ci si aspetta nulla che accade qualcosa di vero. Arrivai al Santuario a metà mattinata.
Era un giorno feriale, e c’era poca gente. Solo qualche pellegrino silenzioso, qualche anziano del posto, e il rumore lento dei propri passi sul selciato. L’ingresso del complesso è semplice, sobrio, ma basta varcarlo per sentire una sorta di distacco dal tempo. Il frastuono del mondo resta fuori, e dentro si respira un’aria diversa: più calma, più densa, più raccolta. Camminando nei cortili interni, osservando le mura secolari e le statue che raccontano episodi della vita del santo, ho provato un senso di piccolezza. Ma non in modo negativo.
Era come se tutto ciò che ci affanna ogni giorno – il lavoro, le preoccupazioni, le distrazioni continue – in quel luogo svanisse. Come se la vera misura dell’uomo non fosse nelle cose che possiede, ma nel silenzio che riesce ad ascoltare. Mi fermai in una piccola cappella laterale, attratto più dalla penombra che da un intento preciso. Ed è lì che l’ho visto. L’inginocchiatoio. Quello vero.
Quello su cui, secondo la tradizione, si inginocchiava San Francesco per pregare. All’inizio non capii subito cosa fosse. Era un semplice oggetto di legno, scuro, consumato dal tempo. Ma bastò uno sguardo più attento per rendermi conto della sua importanza.
Mi avvicinai. Le mani quasi tremavano.
Non per paura, ma per rispetto. Quel legno, apparentemente ordinario, portava su di sé il peso di secoli di preghiera. I segni lasciati dalle ginocchia, le scanalature scavate dalle mani, il profilo curvo della superficie: tutto parlava di una presenza viva, reale. Lì, per anni, San Francesco aveva pregato. Lì aveva chiesto forza, perdono, luce. Lì aveva pianto, forse, per i mali del mondo. E lì, davanti a me, io sentivo qualcosa che non avevo mai provato prima. Un silenzio pieno. Un silenzio che parlava. Che mi avvolgeva. Non saprei dire quanto tempo sia passato. Forse pochi minuti, forse un’eternità. So solo che, in quell’istante, tutte le parole che avrei potuto dire mi sembravano inutili. Tutte le domande che avevo dentro si erano improvvisamente acquietate. Non avevo bisogno di risposte. Ero lì, ed era abbastanza. Quell’inginocchiatoio non era solo un oggetto. Era un testimone. Di una vita di fede, di umiltà, di dedizione totale. Ma era anche uno specchio. In quel legno consumato, vedevo anche me stesso: le mie fragilità, le mie mancanze, ma anche il mio desiderio – forse inespresso – di qualcosa di vero.
Non ho scattato foto. Non ho fatto video. In un’epoca in cui si documenta tutto, quel momento volevo solo viverlo. Per me. Dentro di me. Dopo qualche minuto mi sono seduto su una delle panche. Ho respirato a fondo. Non ho pregato nel senso classico del termine. Ma ho ascoltato. Me stesso. Il silenzio. Il legno. Il tempo. E forse anche Dio, se vogliamo chiamarlo così. Sono uscito dal Santuario più leggero. Non diverso, forse, ma più consapevole. Avevo toccato con lo sguardo – e con il cuore – una traccia di eternità. E quella traccia me la porto dietro. Ancora oggi, se chiudo gli occhi, riesco a rivedere quell’inginocchiatoio. E non è solo un ricordo.
È un invito. A fermarsi. A fare silenzio.
A ritrovare, nella semplicità, ciò che davvero conta.
Nicola Incampo
