Ci sono battaglie che non si combattono con gli slogan, ma con il cuore. Accade quando si parla di morte assistita, un tema che scuote la coscienza collettiva e divide opinioni, ma che per molti ha una radice semplice e profonda: la vita è un valore, e va vissuta fino alla fine, con orgoglio, con dignità, con tutto ciò che di fragile e prezioso porta con sé.
Per chi non accetta l’idea della morte assistita, non si tratta di ideologia o ostinazione: è qualcosa di più intimo, più umano. È la convinzione che ogni esistenza, anche quando appare stanca, sofferente, consumata, abbia ancora qualcosa da dire. Che in quell’ultimo tratto di strada, spesso il più difficile, ci sia un senso che non possiamo cancellare con una firma o una decisione affrettata.
Chi vede nella vita un bene che va custodito fino all’ultimo respiro spesso ha conosciuto da vicino la fragilità: un genitore anziano, un amico malato, un familiare che lotta. E proprio lì, negli occhi di chi soffre, ha scoperto che la dignità non coincide con la perfezione del corpo, ma con la capacità di continuare ad amare ed essere amati.
Sono storie silenziose, che raramente finiscono nei titoli dei giornali. Storie di mani intrecciate, di respiri affannosi accompagnati dalla presenza di qualcuno che non se ne va. Storie in cui la vita non è più fatta di grandi progetti, ma di piccoli gesti che valgono un mondo: una carezza, una parola sussurrata, un ricordo che riaffiora.
Chi difende la vita fino alla fine spesso porta nel cuore queste immagini. E sa che, anche quando tutto sembra perduto, ogni giorno che resta può essere un dono.
C’è poi una paura che nessuno dovrebbe sottovalutare: quella che la morte assistita, per quanto regolata, possa trasformarsi in una soluzione “comoda” per una società che fatica a prendersi cura dei più fragili.
Molti temono che le persone malate, anziane o sole possano sentirsi un peso. E che, dietro un’apparente libertà di scelta, si nasconda una solitudine ancora più grande.
È un pensiero che stringe lo stomaco: e se qualcuno scegliesse di morire non perché vuole farlo, ma perché non ha nessuno che gli dica “resta, ti tengo la mano”?
Per chi rifiuta la morte assistita, questa possibilità è inaccettabile. La vita, dicono, non può diventare una questione di convenienza.
Ci sono persone che, nonostante la malattia, trasmettono una forza indescrivibile. Lo fanno senza parole, semplicemente continuando a vivere.
I loro ultimi giorni, pur segnati dal dolore, diventano un inno silenzioso alla resilienza umana. È per loro, spesso, che si dice no alla morte assistita: perché dimostrano che la dignità non si perde quando il corpo si indebolisce, ma quando smettiamo di riconoscere il valore di una vita che si spegne lentamente, come una candela che illumina fino all’ultimo la stanza.
Chi crede che la vita vada vissuta con orgoglio fino alla fine non rifiuta la sofferenza per eroismo, né idealizza il dolore. Al contrario, chiede cure migliori, più umanità, più accompagnamento. Chiede che nessuno affronti la fatica degli ultimi giorni da solo. Chiede una società che non si arrenda di fronte alla fragilità, ma che resti accanto a chi soffre.
Perché, dicono, la risposta alla vulnerabilità non è la morte: è la presenza.
È il prendersi cura, il restare accanto, il non lasciare nessuno indietro.
“Fino alla fine”: un messaggio che parla al cuore
Dire che la vita va vissuta fino alla fine non è una frase fatta. È una scelta. A volte difficile. A volte coraggiosa. Sempre profondamente umana.
È l’idea che ogni esistenza, anche quando si assottiglia, custodisca una luce che merita rispetto.
Che l’ultimo tratto del cammino non sia un peso da togliere, ma un momento da accompagnare.
Che la morte non debba essere anticipata: arriverà comunque, e quando arriverà, troverà chi ha vissuto fino all’ultimo istante con la forza di chi sa che ogni respiro conta.
Ed è forse in questo che si riassume la posizione di chi dice no alla morte assistita: non nella paura, non nel giudizio, ma in un atto radicale di amore per la vita.
Sempre.
Fino alla fine.
Nicola Incampo
