Ci sono due episodi che hanno fortemente segnato la politica italiana negli Anni Settanta: il rapimento da parte delle Brigate rosse e il conseguente omicidio del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuto nel 1978; e il fallito attentato da parte dei servizi segreti dell’Est, a Sofia in Bulgaria nel 1973, al segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer. Le due vicende sono state oggetto di un’ampia riflessione, organizzata nei giorni scorsi a Matera dall’Associazione lucana degli ex parlamentari e consiglieri regionali, nella quale sono stati presentati i volumi “Il caso Moro” (Baldini+Castoldi) scritto da Claudio Signorile e Simona Colarizi e “Berlinguer deve morire” (Fuori scena) di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti. L’incontro, molto partecipato, si è tenuto presso l’Hotel San Domenico. Dopo l’introduzione di Aldo Michele Radice, già presidente del Consiglio regionale di Basilicata, moderati dal giornalista Pasquale Doria, sono intervenuti gli ex parlamentari Salvatore Adduce, Filippo Bubbico, Emilio Nicola Buccico, Cosimo Latronico e Vincenzo Viti, oltre ai due autori Claudio Signorile già ministro, vice segretario del Psi craxiano e docente emerito di Storia moderna all’Università di Roma e Giovanni Fasanella saggista e giornalista prima del quotidiano l’Unità e dopo del settimanale Panorama.
Nel dibattito, di notevole livello dato il parterre di relatori estremamente qualificato, è emerso come le due circostanze si inquadrano in un contesto storico-politico che, com’è noto, nelle visioni dei due leader politici Moro e Berlinguer, andava nella direzione di sperimentare un cambiamento del quadro politico italiano. Esso prevedeva la collaborazione tra Dc e Pci attraverso il cosiddetto compromesso storico. Tale elemento era avversato da una politica internazionale, bloccata nell’ambito degli accordi di Yalta, che vedeva suddivise le due sfere di influenza degli Stati Uniti a Ovest e dell’Unione Sovietica a Est. In questa cornice si inserisce il testo di Signorile e di Colarizi. In merito abbiamo posto alcune domande a Claudio Signorile.
Onorevole Signorile, un altro testo che si aggiunge ai tanti sul Caso Moro. Cosa ha spinto lei e la professoressa Colarizi a scriverlo?
“L’obiettivo fondamentale di questo libro-conversazione con Simona Colarizi, professore emerito di Storia Contemporanea all’Università di Roma, non è parlare di chi ha ucciso Moro, ma perché è stato ucciso. Non abbiamo ragionato come se fosse una vicenda criminale o una storia di spionaggio ma abbiamo cercato di capire quanto tutto questo sia avvenuto in uno scenario molto delicato per il nostro Paese. Nel volume cerchiamo di comprendere quali sono state le condizioni complessive nelle quali la morte di Moro è sembrata la logica conseguenza di un processo in essere che riguardava non solo il nostro Paese ma tutto il sistema di equilibrio geopolitico mondiale.”
Qual è il nodo del volume e a quali conclusione siete arrivati? Cosa è emerso di nuovo rispetto a quanto già si conosceva?
“La morte di Moro è una morte politica non è un assassinio criminale o terroristico. Moro muore perché la politica che stava favorendo e portando avanti andava oltre Yalta e metteva in discussione delicatissimi equilibri riaprendo problemi che non si volevano affrontare in quanto il più importante Partito comunista dell’Occidente, seguendo anche il percorso che Moro tracciava, si accingeva a diventare forza di governo di uno dei grandi Paesi dell’Occidente come l’Italia, con un valore strategico e una importanza militare significativa. Tutto ciò non si doveva compiere. Occorreva bloccare questo processo che appunto venne fermato con l’assassinio di Aldo Moro.”
Cosa le fu detto quando si recò negli Stati Uniti su invito del Dipartimento di Stato?
“Mi recai negli Usa nell’ottobre del ’77. Da poco il segretario del Psi era Craxi e io ero in numero 2 del partito. Seguivamo con molta attenzione quello che stava avvenendo nel Partito comunista e le eventuali conseguenze del compromesso storico proposto da Berlinguer come scenario. Spiegai in modo semplice che il Pci aveva dichiarato il valore universale della democrazia al plenum del mondo sovietico in un intervento dello stesso Berlinguer che era stato accolto con molta freddezza nel quale dichiarava di sentirsi assicurato dall’ombrello Nato e che ciò era un bene. Evidenzio che il gruppo dirigente del presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter si fidava dei suoi interlocutori italiani democristiani e socialisti, quindi quella specie di antagonismo che veniva attribuito nei confronti di Moro non c’era più e io ragionavo sapendo che le cose che dicevo venivano comprese. A mia volta mi facevo dare delle indicazioni conseguenti, per esempio no alla partecipazione organica al governo da parte del Pci, sì alla partecipazione di sostegno di quelle che erano le scelte politiche che ritenevamo giuste.”
Come sarebbe cambiato lo scenario politico se Moro fosse vissuto?
“Abbiamo dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino perché si rompesse una situazione rigida di governabilità incompleta e ciò sarebbe avvenuto dieci anni prima. L’Italia avrebbe avuto una situazione di buongoverno perché in quel breve periodo in cui c’è stata la solidarietà nazionale il nostro Paese ha avuto importanti azioni di riforma che hanno consentito la crescita dell’Italia.”
A proposito di riforme le pongo una domanda di attualità. Cosa pensa dell’Autonomia differenziata?
“È una cosa che sta suscitando reazioni violente. Non porterà a nulla di concreto perché le regioni ricche resteranno ricche mentre quelle povere saranno tagliate fuori. È una scelta sbagliata in quanto si doveva andare verso una lettura organica di revisione del regionalismo e avere una capacità di dialogo reale tra governo centrale e territorio, invece così come è stata elaborata viene gestita nel modo peggiore e questo lo pagheremo duramente.”
Filippo Radogna