Cicli abbondanti e dolorosi, una stanchezza infinita: la diagnosi è “dismenorrea”. Confrontarsi con le amiche serve a poco; dolore, sangue e stanchezza in quei giorni sono normali. “Dunque sopporta e tira dritto, figlia, le lagne non servono a nessuno”.
Avevo un fuoco dentro. Storia di un dolore che non si può dire (Mondadori) è il memoir, intenso e spiazzante, di Tea Ranno su un disturbo che fin da giovanissima la affligge: l’endometriosi, una malattia cronica che colpisce molte donne, le cui cause non sono ancora del tutto chiare e con una diagnosi spesso complessa. Per l’endometriosi non esiste una cura definitiva. Intanto, giungere a una diagnosi si rivela un percorso tortuoso. Tea lo racconta bene il suo dolore devastante, un dolore che “certe volte è come un cane che mozzica, certe altre è come un fuoco che brucia”. Malgrado la ricerca spasmodica di una cura, trova solo risposte scontate e banali – “Se hai male in quei giorni che c’è di strano?”, “Sei femmina, ti devi abituare”, “Hai la soglia del dolore troppo bassa”, “È un problema psicologico!” sono le frasi che si sentono rivolgere da generazioni le donne che ne soffrono. Questo modo sistematico di screditare il dolore femminile contribuisce a far sì che l’endometriosi ancora oggi venga spesso diagnosticata con grande ritardo.
Avevo un fuoco dentro si apre con Tea, quarantacinquenne, in un letto d’ospedale. Si è svegliata dall’anestesia dopo un’operazione d’urgenza, è stata letteralmente presa per i capelli dopo un’infezione che, partita dall’utero, è arrivata a infuocarle l’intestino, il fegato e i polmoni. Il suo corpo era pieno di pus, la sua vita è stata appesa a un filo. Da quel letto Tea ripercorre la sua adolescenza nella Sicilia degli anni Settanta dove, tra retaggi e non detti, soprattutto la sfera intima era relegata a un qualcosa di personale. E Tea, già dilaniata da quel cane infido che la divora, i suoi segreti li mette su carta: scrive, scrive con passione nei diari con il suo stile inconfondibile, diventa un’autrice stimata da critica e pubblico. Oggi, con coraggio, parla in prima persona di una vicenda che l’ha riguardata, si mette a nudo con la consapevolezza che tantissime altre donne attraversano e hanno attraversato lo stesso calvario: rabbia, impotenza, diagnosi e cure sbagliate, la faticosa ricerca di un figlio…
“Oggi chiamami figlia sono di nuovo io, come nei primi tempi di cane e sangue. Sono figlia e madre di me stessa, madre di quella parte che si sente persa, che annaspa e perde il respiro, che non riesce a rigirarsi nel letto, che chiude gli occhi e cade, cento volte cade, si frantuma in pezzi che tenta di rimettere insieme con una colla più lenta della saliva, perciò al minimo urto ancora si rompe, non riesce a restare intera, tutta intera come prima. (…)”
Stilisticamente perfetto, Avevo un fuoco dentro, con incursioni nel dialetto che conferiscono ulteriore forza alla narrazione.
Tea Ranno è nata a Melilli, in provincia di Siracusa, nel 1963. Dal 1995 vive a Roma. È laureata in giurisprudenza e si occupa di diritto e letteratura. Ha esordito con Cenere, uscito per e/o nel 2006, finalista ai premi Calvino e Berto e vincitore del premio Chianti. Successivamente ha pubblicato i romanzi In una lingua che non so più dire (e/o, 2007), La sposa vermiglia (Mondadori, 2012), vincitore del premio Rea, Viola Fòscari (Mondadori, 2014), Sentimi (Frassinelli, 2018), L’amurusanza (Mondadori, 2019), Terramarina (Mondadori, 2020, premio Città di Erice) e Gioia mia (Mondadori, 2022).
Rossella Montemurro