"Dobbiamo tornare a guardare l'alba e il tramonto con gli occhi della meraviglia prima che con gli occhi del giudizio". Lo ha affermato la psicologa e psicoterapeuta rogersiana Maura Anfossi, riferendosi al colore arancione, questa sera nella città dei Sassi nella...
Petricchio è un paese della Basilicata, un paese inventato che ha in sé tanti elementi di luoghi realmente esistenti in regione. Petricchio è l’Appetricchio del titolo dell’originale romanzo di Fabienne Agliardi edito da Fazi, il paese d’origine di Rosa, la madre di Mapi e Lupo, gemelli di Brescia che ad Appetricchio hanno trascorso tutte le vacanze della loro infanzia. Ed è nel viaggio di ritorno che i due hanno modo di raccontare/rievocare quelle estati trascorse a casa della terribile nonna Milù in un luogo che era un crogiolo di personaggi, ognuno a modo suo macchietta di un determinato modo di essere.
Ma ciò che colpisce, di questo romanzo vulcanico è il linguaggio: espressioni dialettali, onomatopee, semplificazioni, coniazioni e crasi si fondono con l’italiano dando vita a un mix irresistibile e inspiegabilmente comprensibile anche a chi non è lucano.
Questa lingua a suo modo straniera, strana e imprevedibile è il fil rouge di tutto il romanzo. I dialoghi tra gli abitanti – stravaganti a dir poco – sono irresistibili. La maggior parte di loro si chiama Rocco, in onore del santo patrono, nessuno ha un cognome e la domanda d’obbligo appena si intravede qualche volto nuovo è “A chi appartieni”?
Un luogo arcaico o senza tempo, a seconda di come lo si interpreta, contraddistinto negli anni Ottanta come nel 2020 da una sorta di sospensione, dall’essere rimasto “incontaminato”, quasi, dalla contemporaneità.
“Il resto del mondo si chiamava laffòra – e tanto bastava. E così a Petricchio, che non aveva piazze e non aveva vie, era tutto un lannànz e un larrète, labbàsh e langòppa, laddìnta e laffòra. Petricchio di pietre, infiltrate di erba da muro e fumaria, che in estate si ammorbidiva di cuscini di ginestre spettinate e s’affollava di cicale che parevano l’allarme di un’auto arrubbata. In alto un cielo stropicciato e là in fondo un tramonto che infiammava l’aria.”
Mapi e Lupo ricordano con nostalgia le avventure semplici (la lotta con la madre che non voleva il televisore; il primo telefono con il lucchetto e l’angoscia del prezzo delle telefonate; la vicina di casa, Adelina, molto chiacchierata; le varie relazioni di parentela…) e i rapporti genuini vissuti in quel posto che è sempre rimasto nei loro cuori, fino a svelare, con un inaspettato colpo di scena, il motivo che li ha tenuti lontani per un periodo così lungo della loro esistenza.
“Ho scritto Appetricchio per quasi tre anni. – scrive la Agliardi – Tra autodafé, mugugni, rantoli, auto-compiacimenti. Trentasei mesi, come il Parmigiano stagionato: asciutto e a tratti granuloso, con un aroma intenso e deciso. Oggi ha un gusto complesso, ma è ricco di elementi nutritivi che dovrebbero renderlo altamente digeribile – o quantomeno lo spero. Nel mentre ho cambiato vita, lasciando il lavoro da dipendente per dedicare più tempo alla scrittura. Che è una fatica felice”.
L’Autrice ha frequentato i corsi di Scrittura creativa di Raul Montanari e nel 2018 la Scuola Belleville. Nel 2020 ha esordito con Buona la prima (Morellini Editore), che ha avuto ottimi riscontri di critica e di pubblico. Giornalista, laureata in Lingue con una tesi sulle parodie, ha collaborato per dieci anni con Mondadori ed è tra gli autori satirici di «Prugna». Dopo due lustri alla Bocconi ha spezzato le catene: ora è consulente in comunicazione e relazioni esterne e si dedica alla scrittura. Vive a Milano, ma quando può si rifugia in Valle d’Aosta.
Rossella Montemurro