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Un nuovo Lucio Dalla, come nessuno mai l’aveva raccontato, ma soprattutto come nessuno mai l’aveva studiato prima d’ora. É l’opera di Mauro Di Ruvo la prima a inserire il famoso cantautore bolognese, simbolo in tutto il mondo della canzone italiana, nella rosa antologica della nostra letteratura italiana.
Non è un caso che infatti il Cavaliere lucano l’abbia pubblicata per le pagine della prestigiosa Nuova Antologia, presso l’ormai istituzionale Fondazione Spadolini diretta dal prof. Cosimo Ceccuti.
Uscito il 21 marzo 2025 il saggio del critico d’arte intitolato “Lucio Dalla, l’ultimo trovatore del falso dramma” dalle Edizioni Polistampa di Firenze, nel numero di Gennaio-Marzo, è precursore in Italia di quelli che dovrebbero essere oggi gli “studi dalliani”. “Sappiamo invece” dice il critico alla redazione “che questo genere di ricerca filologico-ermeneutica è per Dalla ancora terrà vergine, mai esplorata oltre il confine musicale”.
Nel saggio il Cavaliere ci mostra anche una Bologna e una Napoli che non sorgevano finora come fondamentale elemento di connessione tra la canzone e l’arte dell’autore bolognese. Di Ruvo ci mostra invece come siano state entrambe le città una importante “chiave di volta”, dice il critico, per la carriera di Dalla.
“È una Bologna, la città in cui Dalla s’era formato ed era cresciuto, ch’era la ghibellina d’Italia, che conservava letteralmente lo spirito dilemmatico della sua origine medievale. Una Bologna capace di teorizzare il proprio scetticismo attraverso, cosa strabiliante a dirsi, il dogma cristiano.
Un luogo dove ogni vicolo è piazza, rifugio per i mendicanti e pericolo per i ‘protestanti’, ma dove questo eclettismo di sinergie politico-rituali ha covato le sue più forti debolezze e fragilità nel genio di un novello “trovatore””. Così scrive nel suo saggio il critico d’arte.
“Nel saggio” dichiara il Cavaliere “sono illustrate sinteticamente le varie fasi di modulazione della scrittura dalliana, individuando come essa rispetto ai suoi contemporanei cantautori non si limiti soltanto alla creazione del testo e alla sua sonorizzazione, ma comprenda un iter molto più complesso ideativo che mescola la tradizione poetica a quella lirica”.
Il critico rivolge un prezioso monito alla critica e alla ricerca accademica contemporanea quando scrive:“Parlare di Lucio Dalla come “cantautore” farebbe commettere a chi è pioniere negli studi dalliani, già in partenza, un grosso errore”. Per Di Ruvo Dalla è da ascoltare non per brani ma per versi. E sono quattro le canzoni che il Cavaliere sottopone al vaglio critico della sua analisi, come la famosa “Piazza Grande”, “Paff…bum” con cui aprì la prima volta Sanremo nel 1966, “Canzone” e infine “Caruso”.
Queste sarebbero le principali quattro opere secondo il critico che avrebbero meglio rappresentato il lavorio interiore del genio bolognese.
Piazza Grande, scrive il critico nel suo saggio, è “la sua prima occasione dove può esprimere la sua poetica, che oggi più ci appare come “scrittura recitativa del segno”. E proprio nell’incipit del brano sostiene Di Ruvo è dove dovremmo cercare quell’afflato religioso che lega Dalla alla sua “cara Bologna”, ma non solo questo, perché il critico vede nelle parole dell’attacco della canzone anche la conferma di un cosiddetto “formulario celeste”. È questa una delle novità espresse nell’opera del Cavaliere sul nostro simbolo della canzone italiana. Ma per sapere di cosa si tratta ci toccherà leggere il suo saggio acquistabile online e in qualsiasi libreria.
Il Cavaliere è anche il primo ad aver apportato alla musicologia dell’opera dalliana anche un raffronto filologico con la poesia greca antica e un confronto con la poesia medievale occitanica dei trovatori. Una similitudine questa che suonerebbe strana e incredibile per noi uditori di un Dalla trasgressivo, ma che Di Ruvo dimostra invece essere veritiera e fondata su forti basi storiche e filologiche.
Non si era mai visto infatti un Lucio Dalla messo al fianco del poeta greco Mimnermo o Alceo, ebbene il Cavaliere ci dice il contrario quando afferma nel suo saggio:
“In “Piazza Grande” infatti è sotteso, quasi inavvertitamente un topos che risale sino a Mimnermo e Alceo (VII secolo a.C.), quello del “poeta povero” carente dei χρήματα (la ricchezza) ma destinatario della χάρις (la grazia divina).”
L’arte di Lucio è messa interamente sotto lo scandaglio del critico per farne emergere le più intime e nascoste connessioni con la letteratura antica e medievale, anche frutto di scelte inconsapevoli ma proprio per questo geniali, e le più remote passioni e desideri che “l’ultimo trovatore” bolognese, così come lo chiama il critico d’arte, avrebbe affidato con un senso quasi solenne e sacro alla propria opera.
“Dalla non voleva che fosse apprezzato per la sua musica ma più, e soprattutto, per la sua parola” afferma il Cavaliere lucano. “Proprio per questo in Lucio Dalla la parola ha raggiunto il più alto grado di polisemia e intertestualità semiotica che gli sarebbe giunto da un clandestino sguardo a Umberto Eco”.
“Quella di Dalla” conclude “è un’arte del piegare fondata sul trinomio che spiego nel saggio del perdere/cercare/ trovare.”
“Triplice occorrenza questa che si esplica costantemente nelle arterie del canto dalliano, quasi martellando l’auditore che sentirà il prossimo pezzo inedito, ripetendogli che dalla sua canzone non dovrà aspettarsi «mai» la sicurezza del futuro. La recita dei suoi versi lamenta in sordina un debito soffocante verso il tempo, che fa crollare ogni opera umana. Sarebbe pertanto meglio anticiparlo, e Dalla lo fa con la profezia della sua nostalgia.
Come un bravo trovatore occitano, egli proietta nel canto il tempo futuro di una impossibile nostalgia. Tutto ciò che canta al futuro sa ch’è impossibile, lo riconosce utopico, perciò la sua voce intona un inno distopico verso la nobile povertà, innalza ricordi mai passati così come se lo fossero vissuti in una dimensione ideale, ma sempre parallela da quella reale, che sfiora
la pellicola pittorica d’un paesaggio marino così desolato, pur senza averne mai provato la «gravità isolante».”
È quanto Di Ruvo scrive in un passo del suo saggio in riferimento al concetto di carità e Charis che troveremmo in “Piazza grande” e nella “Sera dei Miracoli”.
Quest’arte dice infine il critico possiamo immaginarcela osservando l’incredibile successo che ebbe la sua canzone “L’ultima luna” come colonna sonora del film di Carlo Verdone Borotalco. Una canzone questa “dove lo scimmione è l’antenato di quel Cristo che scenderà dalla croce, e così come in Caruso quell’uomo che aveva pianto, a lui col canto sembrò più dolce anche la morte”. E aggiunge Di Ruvo “É Lucio qui che trova finalmente, dietro la catena del pianoforte, la sua sorte”.